venerdì 25 febbraio 2011

......................STORIE D'AFRICA...........continua

Capitane coraggiose

Una è un nome famoso. L’altra porta un nome famoso. L’altra ancora ha un nome come tanti e non è famosa per niente. Eppure queste tre donne africane, donne del Sahel, sono, ciascuna a modo suo, speciali per davvero.
Aminata Traoré la conoscono un po’ tutti. Ex ministro della Cultura del suo Paese, il Mali, ha sbattuto la porta al governo per tornare ad essere indipendente e battersi come africana e come donna per un’Africa e un mondo più giusti.
Odile Sankara, invece, porta nel nome l’eco di una stagione di lotta e di speranza. È la petite soeur del grande leader del Burkina Faso, Thomas Sankara, ma lei non ha niente a che vedere con la politica. Sono la cultura e il teatro le armi per la sua battaglia contro l’ignoranza e per la liberazione della donna.

                         

Infine, Fatimata Mbaye è una sconosciuta avvocatessa della Mauritania. Ma già solo il fatto di essere donna, nera, avvocato e militante per i diritti umani la rendono un caso unico nel suo Paese. E l’ha pagato a caro prezzo.
«È una grande battaglia quella che siamo chiamate a fare noi donne africane», dice Aminata Traoré, che incontriamo di passaggio in Italia. E lei battagliera lo è davvero. Ma con quel fascino tutto femminile che enfatizza sapientemente con ampi abiti e vistosi turbanti. «Vogliono confinarci nello spazio domestico - afferma risoluta -. E invece dobbiamo uscire fuori, non per chiedere pietà, ma rispetto e solidarietà. La resistenza deve partire da noi donne. Abbiamo un ruolo importante: curare le piaghe di un sistema cinico, in cui prevalgono le logiche del profitto, della mercificazione di ogni cosa, anche della cultura, del pensiero, dell’arte, delle nostre tradizioni. Le donne hanno qualcosa da dire. Siamo più forti e più credibili, perché meno soggette alle logiche del profitto, dei soldi, del potere, del dominio. Gli uomini vengono facilmente sedotti dalle tentazioni…».
La Traoré una proposta ce l’ha: promuovere la partecipazione delle donne alla vita sociale e politica dei loro Paesi. Non solo in Africa. «Resistere è un’esigenza. Ma anche cambiare le cose. Oggi occorre costruire una visione più fraterna del mondo. E i media hanno un grande ruolo, ma anche una grande responsabilità, perché stanno sempre dalla parte del potere. Sono stanca delle immagini di un’Africa povera, derelitta, in guerra… Occorre un’informazione più corretta che dia voce a tutti, anche a noi. Un’altra Africa è possibile solo se un altro mondo, un’altra Europa e un’altra Italia saranno possibili. Cominciamo a lottare contro l’indifferenza».
È questo uno dei cavalli di battaglia di madame Traoré: lottare contro l’indifferenze, da un lato, e contro l’ingerenza, dall’altro: ingerenza economica, politica e anche culturale. La violazione dell’immaginario - ha sostenuto in uno dei suoi libri pubblicati anche in Italia (Ponte alle Grazie, 2002) - è la principale violenza che viene fatta oggi all’Africa. Significa «cancellare la sua storia, la sua cultura, le sue tradizioni. Significa far passare l’idea che questo continente non possiede nulla, nemmeno una sua cultura. E si usa questa come giustificazione per poi immischiarsi nei suoi affari, opprimerlo, depredarlo…». 
La sua è una voce di denuncia forte, che rimbalza dai villaggi del Mali ai summit planetari, da Porto Alegre a Mumbai. Eppure la Traoré non rinuncia mai a sottolineare anche elementi di proposta e di speranza. Nonché di responsabilità. «C’è un dovere di verità che si impone, innanzitutto a noi africani - dice convinta -. È estremamente importante, fondamentale. Soprattutto in quest’epoca storica cruciale per il mondo. Perché anche l’Africa possa far sentire la sua voce. E che sia una voce autentica».
Come quella di Odile Sankara, che ha tutt’altro temperamento rispetto all’esuberante madame Traoré. Discreta, al limite della timidezza, ti racconta la sua storia e il suo impegno con una naturalezza che fa sembrare del tutto scontata una scelta di vita fuori dal comune. Una scelta molto criticata. Perché non capìta.
Odile ha una formazione umanistica, è attrice di teatro ed è impegnata nella promozione della donna in Burkina Faso. Ha quarant’anni, non è sposata e non ha figli. Tutte cose - private e professionali - che in una società ancora fortemente tradizionalista come quella del suo Paese non sempre sono viste di buon occhio. Anzi… E infatti, di maldicenze e discriminazioni ne ha dovute subire molte, Odile.  «In Burkina Faso - racconta -, le donne che fanno teatro o che lavorano in ambito culturale o artistico non sono ben viste, vengono considerate delle poco di buono. Questo perché lavoriamo molto di notte, usciamo da sole, rientriamo tardi, e allora si pensa che conduciamo una vita scostumata. Naturalmente non è vero e dunque abbiamo deciso di farlo capire alla gente attraverso il nostro lavoro e la creazione di un’associazione che promuove molte iniziative».
Si chiama Talents des femmes («Talenti delle donne») l’associazione che Odile e tre sue amiche hanno fondato nel 1996. Col tempo vi si associano altre donne e in breve cominciano a proporre svariate iniziative, divenendo molto attive e conosciute in tutto il Paese. In particolare, l’associazione acquista notorietà grazie al festival Voix des femmes («Voci di donne»), che si svolge ogni due anni ed è ormai giunto alla quarta edizione.
«L’idea di fondo - spiega Odile - è far venire nella capitale Ouagadougou le troupe tradizionali dalle zone rurali. Lì le donne hanno creato gruppi di danza e canto, ma il loro lavoro resta confinato nei villaggi. Inoltre, non hanno una formazione adeguata e quindi quello che fanno resta un po’ nell’ambito del folclore. Durante il festival, invece, hanno l’opportunità di esibirsi in città, confrontarsi con altre troupe e scambiarsi idee ed esperienze. E poi, proponiamo momenti formativi con professori e specialisti e una tavola rotonda durante la quale si affrontano i diversi problemi che incontrano».
Uno di questi, purtroppo, continua ad essere di carattere non meramente artistico, ma socio-culturale. In un contesto ancora fortemente tradizionale, le donne godono di relativa libertà, non possono fare ciò che desiderano, né sviluppare le loro capacità e la loro creatività. Tutto dipende dagli uomini che stanno loro accanto. Che, nella migliore delle ipotesi, le controllano e più spesso le sottomettono.
«È un problema di educazione - sottolinea Odile -. Specialmente nei villaggi, le donne adulte non sono mai andate a scuola, e ancora oggi esiste un problema di scolarizzazione delle bambine. Nei contesti rurali, dove la gente è più povera, spesso sono loro le prime ad essere discriminate, anche perché in casa svolgono un ruolo fondamentale, aiutano la mamma con i fratellini, nei lavori domestici o nei campi…».
E allora, per cercare di cambiare un po’ la mentalità, senza però urtare le sensibilità o stravolgere cultura e tradizioni, Odile ha fatto quello che sa fare meglio: l’attrice. E insieme alla Compagnie deSeeren  («fioritura») e il supporto di una ong canadese, ha organizzato una grande tournée in tutto il Paese. E in modo semplice, ma diretto e comprensibile per tutti, ha parlato di tematiche molto delicate, che spesso restano ancora oggi tabù. Come le mutilazioni genitali femminili, i matrimoni forzati, la salute riproduttiva, i diritti dei bambini e delle donne…
«Alla fine di ogni spettacolo - racconta Odile - c’è sempre un dibattito con la gente del villaggio. E spesso sono più interessanti delle rappresentazioni stesse! La gente parla senza timore. Anzi, spesso ci rinfacciano il fatto che noi veniamo dalla città e dunque ci permettiamo di dare loro delle lezioni. E allora ci spiegano il loro punto di vista…».
Per  una famiglia che vive nelle regioni rurali del Burkina dare una figlia giovanissima in moglie significa assicurarle un futuro, evitare che abbia relazioni con un ragazzo qualunque e magari resti incinta prima del matrimonio. Uno scandalo inconcepibile.
«Con tutto il rispetto possibile - spiega Odile - cerchiamo di farli riflettere e di aprire un poco i loro orizzonti. Poniamo delle domande, senza necessariamente imporre delle risposte. E vediamo che la gente a poco a poco capisce. E qualcuno cambia anche atteggiamento, anche se sappiamo che è un processo molto lungo».
È così che Odile e le sue collaboratrici di Talents de femmes stanno portando avanti un lavoro prezioso e faticoso, per l’emancipazione delle donne del loro Paese. «Solo se  possiedi un’educazione allora puoi davvero scegliere della tua vita. È questo che stiamo cercando di trasmette alle altre donne. Solo il sapere, la consapevolezza dei nostri diritti, ci permette di essere finalmente libere».
Certo le difficoltà non mancano. E anche se sono sempre di più quelli che conoscono e apprezzano il loro lavoro, c’è ancora chi guarda con sospetto - se non con disprezzo - queste donne artiste, creative e indipendenti.
«Dobbiamo continuare - dice convinta Odile - e crederci fino in fondo, avere una forte motivazione e il coraggio di andare avanti».
Una frase del genere potrebbe sottoscriverla integralmente un’altra donna che vive non molto distante da lì, in Mauritania. Per Fatimata Mbaye, la vita è stata una sfida continua: contro la famiglia, la tradizione, le leggi scritte e non, che obbligano le bambine a matrimoni forzati, contro la schiavitù abolita sulla carta ma ancora praticata… Contro tutto ciò che opprime l’uomo e soprattutto la donna.
Lei il coraggio di farlo l’ha trovato quand’era giovanissima. Sposata a 13 anni a un uomo molto più anziano di lei, cui doveva totale obbedienza e sottomissione, ha dovuto abbandonare gli studi e dedicarsi completamente a lui, alla casa, alla famiglia. Una vita da reclusa. Per dieci anni. «Ho conosciuto il matrimonio forzato, sono stata circondata da ragazzine che morivano a causa delle mutilazioni genitali, e dunque il mio cammino non poteva essere che quello». Ovvero, dopo aver divorziato, riprendere gli studi e diventare la prima e unica donna avvocato del suo Paese. Una donna nera oltretutto, di etnia peul, disprezzata e schiavizzata dalle popolazioni maure. E infatti, nel 1986, dopo la pubblicazione del «Manifesto del nero-mauritano oppresso» finiscono in prigione gli intellettuali che lo avevano firmato e anche gli studenti che li avevano sostenuti. Compresa Fatimata. È il suo primo «soggiorno» nelle patrie carceri. Da cui trarrà ispirazione per denunciare gli abusi che le donne vi subiscono. «Ho scelto di studiare diritto per essere al servizio di chi i diritti non ce li ha», non si stanca di ripetere. E, allora, prima si mette a disposizione del Comitato delle vedove, poi contribuisce alla fondazione di Sos-Esclaves e quindi diventa presidente dell’Associazione mauritana dei diritti dell’uomo.
Associazioni che, fino allo scorso 15 maggio, erano tutte considerate illegali. Il riconoscimento da parte del ministero dell’Interno mauritano è un importante passo avanti, che ricompensa molte delle battaglie fatte da Fatimata. Ma non basta. Questa minuta avvocatessa, armata solo della forza della parola, ammonisce: «Ci sono decine di altre associazioni che attendono di poter agire legalmente nel Paese».
Dunque, la lotta continua. Con le donne in testa. 

                                                       Amici di Bedanda

sabato 19 febbraio 2011

GUERRA???????NO GRAZIE

Campagna di mobilitazione

stop alla produzione dei cacciabombardieri F35

Descrizione della campagna e materiali per contribuire


L’Italia spenderà 15 miliardi per nuovi aerei da guerra F35. Pax Christi Italia lancia una campagna di mobilitazione per chiedere di sospendere la partecipazione al progetto dei cacciabombardieri F35. Chiede a tutti di scrivere ai parlamentari anche in vista della discussione sugli F35 che ci sarà in Parlamento verso la metà di marzo. Invece di investire nella scuola, nell'università, nella ricerca, per il terzo settore e per la cooperazione internazionale, si investe incredibilmente in nuovi armamenti. L'art. 11 della nostra Costituzione “ripudia la guerra…”. “La corsa agli armamenti... è un’aggressione che si fa crimine: gli armamenti, anche se non messi in opera, con il loro alto costo uccidono i poveri, facendoli morire di fame ". (La Santa Sede e il disarmo generale, 1976)
Sì, è ancora possibile fermare questo progetto, altre nazioni lo hanno fatto. È ancora possibile non oscurare il sogno di Isaia “forgeranno le spade in aratri… non si eserciteranno più nell’arte della guerra”. Invertiamo la rotta!!
Perchè la guerra è ‘avventura senza ritorno’.

Qui a lato è possibile scaricare il volantino con tutte le informazioni e il testo della lettera da spedire ai parlamentari.
Oppure telefonando a: Segreteria Nazionale Pax Christi tel. 055-2020375 e-mail:
info@paxchristi.it

Per saperne di più: http://www.disarmo.org/rete/a/29509.html

NOI SIAMO CONTRO OGNI TIPO DI GUERRA...................SIA CHIARO!!!!!!!


                                                                       Amici di Bedanda

martedì 8 febbraio 2011

E LA STORIA CONTINA......................

Kenya

Baba Yetu, Padre nostro

Quotidianità della casa di accoglienza di Soweto, baraccopoli alla periferia di Nairobi.
Gian Paolo Chiecchi (Casco Bianco a Nairobi, Kenya)

Qualcuno l’ha definito un porto di mare, qualcun’altro un dispensario di speranze. Senza dubbio è un punto di riferimento per le persone di Soweto che non mancano mai di essere presenti, di chiedere, a volte anche di pretendere. D’altronde l’hanno visto crescere dall’interno, l’hanno accompagnato nel modificarsi ed evolversi. Con il passare degli anni ha preso sempre più forma ed ora muove i suoi passi da solo. “Baba Yetu” che in lingua Swahili significa “Padre Nostro” è il nome della casa-missione nella quale vivo insieme ad altri volontari che hanno scelto di trascorrere qui un’esperienza più o meno lunga. Le mura di fango e legno sostengono le pareti dove manca la lamiera arrugginita. Questo scheletro fragile racchiude un tesoro prezioso...le storie di molte persone. Infatti prima ancora che il sole sorga, Soweto è gia sveglia. E prima che la maggior parte di noi si alzi dal letto c’è già una fila di donne fuori dalla porta in attesa di un lavoro. Lavorare in “Baba Yetu” significa ricevere un salario buono, non avere ritmi stressanti, ma soprattutto fare qualcosa per gli amici della missione. Così c’è sempre una calca di persone che sperano di essere scelte da Macharia, un signore che ci aiuta. A rotazione si cerca di dare un po’ di lavoro a tutti senza preferire uno o l’altro. E dal momento in cui vengono scelti alcuni di loro comincia il via-vai che terminerà la sera. Da una parte è un dono poter incontrare così tante persone, dall’altra ti accorgi che il peso che portano, delle volte è grande e ti scende un po’ di tristezza. Nairobi, 2007. Foto di Gian Paolo Chiecchi.

In Baba Yetu la mattina è in prevalenza il turno dei malati. Mamme giovani e premurose, portando i loro piccoli sulla schiena, chiedono di poter essere viste da un dottore o di poter andare in qualche ospedale per un controllo. Questi pargoletti moccolosi a volte si spaventano alla vista di un bianco e piangendo danno voce alla casa. Le madri cercano di calmarli con più o meno successo, mentre noi scegliamo le medicine o il provvedimento migliore per aiutarle in modo adeguato. Nel frattempo entra dalla porta, sempre aperta, il vecchietto dal nome impronunciabile che ti vende le banane. Ti viene in mente che ne hai già a sufficienza e ti dispiace dirgli di no. Così, magari, opti per comprargliene la metà anziché tutte, e non sai come farglielo capire perché non conosce una parola di inglese. Sai che per lui un “no”, significherebbe quasi un’offesa più che un rifiuto e allora con un sorriso gli spieghi come stanno le cose. E nel frattempo, come un vero porto di mare, la signora del pesce (Mama Samaki) ti porta 3 kg di questo come da accordi e dietro di lei si intrufola il solito ubriacone di turno, creando un po’ di proteste e scompiglio tra le persone presenti. Così, mentre prendi il pesce e lo porti in cucina ti si mette davanti Bernard, il bimbo di una cuoca, che tendendoti la mano ti mostra un tappo di bottiglia. In quel momento diventa lui la persona più importante della casa e non puoi rifiutargli una carezza. Metti una mano in tasca e tiri fuori una caramella che diventa subito molto più importante del tappo trovato in qualche angolo oscuro della cucina. La mamma del bimbo moccoloso reclama anche lei una “sweet” per il suo pargoletto, che sarà pur malato ma la forza per ciucciare una caramella ce l’ha sempre. Ti giri e scopri che l’ubriaco si è comodamente seduto sul divano e con aria soddisfatta si guarda intorno cercando invano di attaccare bottone con qualcuno a caso. Uno dopo l’altro si cerca di dare una risposta a tutti.
Tra i vari incontri ce n’è uno che mi smuove il cuore ogni volta. Ed è quello con la piccola Waithera, che con i suoi occhioni grandi e un sorriso gigante, le mancano i 4 denti incisivi, mi chiede “Gianpi, give me baloon”. E a lei so che non posso dirle di no, perché mi ci sono affezionato tanto, e anche perchè ora ha imparato a chiedermi “please”.
E così tra tanti incontri si strappano sorrisi e qualche lacrima a coloro che passano a bussare alla porta di “Baba Yetu”. Provare a mettersi a servizio non significa perderci, ma in questo caso si vince sempre. Si vince uno sguardo, un sorriso, che valgono molto di più di una lotteria. E nella lotteria di Baba Yetu i premi sono le emozioni che ogni giorno ti riempiono il cuore di gioia attraverso coloro che bussano alla porta


                                                                Amici di Bedanda